Onde gravitazionali, non c'è alcuna prova |
2015-01-30 00:00:00 | |
Dall'analisi congiunta dei dati raccolti dal satellite Planck dell'ESA dallo spazio e, da terra, dagli esperimenti BICEP2 e Keck Array, contrariamente a quanto annunciato la primavera scorsa dal team dello stesso BICEP2, non è emersa alcuna prova certa della presenza di onde gravitazionali risalenti al Big Bang Erano l’impronta delle onde gravitazionali primordiali, quelle particolari conformazioni dette “modi-B” che il 17 marzo scorso l’esperimento BICEP2 annunciò d’aver intravisto nella polarizzazione del fondo cosmico a microonde? Per rispondere, il team del satellite Planck dell’Agenzia spaziale europea (ESA) e quello del telescopio situati al Polo Sud BICEP2 hanno unito le forze e messo in comune i dati raccolti – compresi quelli del Keck Array, altro telescopio antartico. Ma la conclusione alla quale sono giunti è che non si può ancora offrire alcuna risposta certa: la contaminazione da polvere galattica è risultata molto più alta di quanto inizialmente stimato dagli scienziati di BICEP2, e comunque troppo elevata per poter confermare la presenza o meno d’una traccia d’origine primordiale. Il segnale elettromagnetico catturato e analizzato dai tre esperimenti è la cosiddetta CMB, o radiazione di fondo cosmico a microonde. Scoperta esattamente 50 anni fa dai premi Nobel Arno Penzias e Robert Wilson, la CMB è la prima luce che mai sia stata emessa nel corso dei 13,8 miliardi di anni di storia dell’universo: risale ad appena 380 mila anni dopo il Big Bang. La mappa a tutto cielo della CMB, tracciata con una precisione senza precedenti grazie alle osservazioni del telescopio spaziale Planck, ha già permesso un’ampia gamma di nuove scoperte scientifiche sull’universo primordiale. Ma prima ancora? Per tentare di risalire più indietro nel tempo, gli astronomi si concentrano su una particolare caratteristica del fondo cosmico a microonde: la polarizzazione. La luce è polarizzata quando le onde elettromagnetiche vibrano preferibilmente in una certa direzione, invece che in tutte le direzioni indistintamente come avviene nel caso della luce non polarizzata. Ebbene, uno tra i fenomeni che potrebbero aver impresso impronte caratteristiche – a forma di riccioli, dette “modi B” – nella polarizzazione della CMB sono appunto le onde gravitazionali primordiali: piccole perturbazioni nel tessuto dello spazio-tempo. Perturbazioni prodotte durante l’inflazione, una brevissima fase d’espansione accelerata che, stando alle attuali teorie, l’universo avrebbe attraversato negli istanti immediatamente successivi al Big Bang, quando aveva appena una frazione di secondo. «La ricerca di questa traccia unica dell’universo primordiale è tanto difficile quanto emozionante, poiché si tratta d’un segnale assai debole, nascosto nella polarizzazione della CMB, che a sua volta rappresenta nient’altro che una piccola frazione della luce totale», dice il project scientist di Planck Jan Tauber, dell’ESA. Ed è proprio la traccia che nei primi mesi del 2014 un altro team di astronomi, quello appunto di BICEP2, riteneva d’avere individuato. Nei dati raccolti osservando la polarizzazione della CMB su una piccola zona del cielo con BICEP2 e con il Keck Array, i ricercatori avevano intravisto qualcosa d’inedito: motivi con tutta l’aria d’essere “modi B” s’arricciavano sulla porzione di cielo osservata, occupando ciascuno un’area corrispondente a più o meno il doppio di quella coperta dalla Luna piena. Ma ciò che più fece scalpore è che le prove presentate dal team di BICEP2 suggerivano, come interpretazione privilegiata per l’origine di quei segnali, proprio le onde gravitazionali primordiali. Suscitando così un notevole clamore sia nella comunità scientifica sia, più in generale, sui media e nel grande pubblico. Tuttavia, i “modi B” possono essere impressi nella polarizzazione anche da un altro fenomeno, meno esotico e tutt’altro che primordiale: la polvere interstellare presente nella nostra galassia, la Via Lattea. E rimuovere la contaminazione del segnale polarizzato prodotto dalla polvere – in termini tecnici, separare il foreground (in questo caso, appunto, la polvere) dal background – è un’operazione alquanto delicata, che richiede un’attenta analisi. «Quando rilevammo per la prima volta il segnale», ricorda ora John Kovac, della Harvard University (USA), responsabile di BICEP2, «ci affidammo ai modelli d’emissione di polvere galattica disponibili all’epoca. Modelli che sembravano indicare che la regione di cielo scelta per le osservazioni presentasse un contributo in polarizzazione dalla polvere assai inferiore al segnale da noi rilevato». In altre parole, avendo osservato un’area ritenuta relativamente incontaminata dalla polvere, il team BICEP2 aveva interpretato il segnale come di probabile origine cosmologica. Il problema è che i due esperimenti terrestri – BICEP2 e il Keck Array – lavorano su una singola frequenza a microonde (150 GHz), il che rende pressoché impossibile separare le emissioni di foreground da quelle di background. Operazione, questa, invece alla portata di Planck, che avendo osservato l’intero cielo su ben nove canali di frequenza (sette dei quali con rivelatori sensibili alla polarizzazione) è in grado di separare dal segnale cosmologico i vari contributi della galassia, sia ad alta frequenza (polvere, rilevabile con lo strumento HFI) che a bassa frequenza (emissione da elettroni e da grani di polvere, rilevabile con lo strumento LFI). Ebbene, non appena le mappe dell’emissione polarizzata dovuta alla polvere galattica prodotte da Planck sono state rese pubbliche, è apparso subito evidente che il contributo di foreground – la contaminazione da polvere, appunto – poteva essere assai più elevato di quanto atteso. In particolare, i dati pubblicati da Planck nel settembre scorso hanno mostrato, per la prima volta, quanto l’emissione polarizzata dovuta alla polvere risulti significativa sull’intero cielo: con livelli compatibili – anche nelle regioni più pulite – al segnale rilevato dal BICEP2. I team di Planck e BICEP2 hanno così deciso d’unire le forze, anche per sfruttare al meglio l’evidente complementarietà fra i due strumenti – la capacità del satellite ESA d’osservare l’intero cielo su più frequenze da una parte, e la maggiore sensibilità degli esperimenti da terra dall’altra. Le conclusioni, rese pubbliche oggi e raccolte in un articolo appena sottoposto alla rivista Physical Review Letters, sono il risultato di questo impegno congiunto. «Abbiamo dimostrato che, una volta rimossa l’emissione della polvere galattica, la prova della rilevazione di “modi B” primordiali non è più così solida. Purtroppo, dunque, non possiamo confermare che quel segnale rappresenti davvero un’impronta dell’inflazione cosmica», spiega Jean-Loup Puget, dell’Institut d’Astrophysique Spatiale di Orsay (Francia). «Abbiamo comunque avuto l’ennesima conferma delle eccezionali capacità di Planck, che proprio grazie alla sua capacità d’osservare l’intero cielo in nove frequenze ha permesso d’arrivare a una conclusione condivisa. Ed è bene sottolineare che, pur non avendo trovato – in queste che sono senza alcun dubbio le migliori osservazioni della polarizzazione della CMB attualmente disponibili – una prova convincente della presenza d’un segnale dovuto alle onde gravitazionali primordiali», chiarisce Reno Mandolesi, associato INAF e dell’Università degli Studi di Ferrara, responsabile DI LFI, l’altro strumento a bordo di Planck, «ciò non invalida in alcun modo l’ipotesi dell’inflazione cosmica». Insomma, la caccia al segnale che potrebbero aver lasciato le onde gravitazionali primordiali – che in base ai risultati di questo lavoro congiunto non dovrebbe superare la metà di quanto ipotizzato in precedenza da BICEP2 – non si arresta. Per saperne di più:
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